I LONGOBARDI
Nel 568-69, all’irrompere
dei Longobardi nella Val Padana, i Bizantini non avevano ancora saputo rimediare
a tutte le conseguenze lasciate in Italia dal ventennale conflitto contro i
Goti.
A guidare fra Lario e Verbano la ripresa di una misera popolazione erano i pochi
centri battesimali cristiani in quanto questi favorivano il rinascere di contatti,
di scambi e di iniziative fra le comunità.
I Longobardi guidati da Alboino arrivarono ad occupare Milano il 5 settembre
del 569.
Anche se non è da escludersi che Sibrium cadesse in mano longobarda quasi
immediatamente, l’opinione diffusa è che il castrum fu conquistato
o sotto il regno di Clefi, successore di Alboino, o successivamente nel 588,
con l’attacco definitivo di Autari contro gli ultimi possedimenti bizantini
ormai ridotti alla sola isola Comacina.
Per meglio comprendere i cambiamenti che interessarono Sibrium-Seprio sotto
i Longobardi è necessario chiarire preventivamente alcuni aspetti di
questo popolo.
Quando i longobardi giunsero in Italia il loro era il ‘regno di una gente’,
il che significava regno senza territorio: un organismo politico a base etnica
e personale, non territoriale.
L’intero popolo concepisce se stesso come un esercito, le gerarchie del
quale riflettono simultaneamente l’ordine civile e sociale, ciascun membro
è un guerriero, un arimanno, mentre il re è il capo dell’esercito,
colui che detiene il supremo potere militare soltanto in tempo di guerra mentre
in tempo di pace è la stirpe a prevalere e la sovranità è
esercitata dall’assemblea popolare degli armati, cioè dall’organismo
collettivo che elegge il re e gli conferisce il potere in occasione delle spedizioni
armate.
Tra il vertice e la base troviamo i duchi, gli sculdasci e i decani: questi
sono ufficiali comandanti di gruppi armati e contemporaneamente titolari di
poteri giudiziari e amministrativi rispetto alla schiera di guerrieri che si
muove sotto la loro guida.
Il rapporto fra re è duchi e tra duchi e singoli arimanni è temporaneo
e volontario.
Il contingente militare di base con il quale si formano i quadri dell’intero
esercito è la fara, la struttura monocellulare della società longobarda,
un aggregato familiare o plurifamiliare la cui coesione si fonda sul legame
parentale.
Gradualmente, man mano che l’occupazione delle nuove terre veniva espandendosi,
i vari corpi militari, per ordine del re, si stanziarono con compiti di presidio
in determinati ambiti strategici.
In questo modo erano sorti i ducati e le judiciariae, queste ultime militarmente
rette dallo stesso re il quale incaricava un semplice judex per le dispute civili.
Il territorio longobardo era quindi suddiviso in distretti governati da Duchi
legati al re da un semplice giuramento di fedeltà sulla parola.
Strutture e schemi dei vecchi distretti municipali romani non ebbero alcun peso.
Centri fino ad allora ricchi e famosi mantennero l’antico rango solo se
situati in posizioni militarmente e strategicamente degne di nota.
In ogni territorio il luogo militarmente più quotato divenne sede del
dux o judex e centro di raduno arimannico.
Con questo i Longobardi si chiusero in una casta a sé lasciando che la
vita dei soggiogati, seppur ridotta alle più elementari espressioni,
continuasse nei suoi aspetti tradizionali, ivi compreso il culto e l’amministrazione
della giustizia.
L’immobilizzazione
improvvisa del popolo nel nord Italia condusse a mutare innanzitutto il volto
dell’istituzione al vertice: il sovrano (denominato Flavius) siede a capo
di un personale di corte gerarchizzato, di un tribunale supremo, di uffici amministrativi
ed impersona lo stato emanandone le leggi.
E’ con la salita al potere di Autari che, per contrastare il potere dei
singoli duchi, assoggettati alla corona più per volontà che per
dovere, vengono insediati in molti territori suoi funzionari, i gastaldi, con
dignità e poteri analoghi a quelli dei duchi e con il compito di rappresentare
più direttamente gli interessi della corona.
Sotto Autari
è probabile che prendesse forma definitiva fra Lario e Verbano un finis,
cioè un territorio dai precisi confini e con un proprio volto amministrativo
(in una carta risalente al 842 viene citato un Gastaldo, questo unico particolare
potrebbe portare all’identificazione di una verosimile figura di judiciaria
avuta in età longobarda e perdurata per qualche tempo in età carolingia),
avente per proprio centro Castel Seprio.
Sembra infatti lecito supporre che il Seprio, almeno agli inizi, fosse retto
da un Duca e che venne declassato a semplice finis soltanto successivamente,
o agli inizi del regno di Autari o durante il regno di Agilulfo. Nel primo caso,
il declassamento si inserirebbe nell’ottica della politica regia di assicurare
vasti possessi al patrimonio della Corona mettendo nel contempo fuori gioco
tutti quei duchi che avevano ostacolato la sua ascesa al trono (583) o che,
dopo la morte del padre Clefi (673), si erano troppo legati ai Bizantini. Nel
secondo caso la causa sarebbe da imputarsi all’azione condotta da Agilulfo
nel 591 contro chi nel conflitto longobardo contro i Franchi e i Bizantini dell’anno
precedente si era schierato più o meno apertamente con essi oppure aveva
dimostrato poche capacità decisionali come forse era avvenuto nel Seprio,
finis del Regno troppo importante per essere lasciato in mano poco sicura.
Qualunque fosse la struttura organizzativa del nuovo territorio il suo confine
a nord si estendeva a partire dal Sasso di Pino sopra Maccagno e, dopo aver
toccato il Ceneri, pare raggiungesse il Ceresio poco ad est della Valsolda.
Ad oriente, era il Lario a limitarne l’estensione in un primo tratto mentre
in un secondo serviva allo scopo il corso del Seveso. Ad occidente, infine,
la riva del Verbano e un tratto del Ticino costituivano i confini naturali con
le judiciarie di Stationa (Angera) e di Plumbia (Pombia). Quest’estensione
si modificò in due successivi momenti storici: nei primi anni dell’età
carolingia un altro finis incentrato sull’antica Stationa (Angera) sottrasse
a quello del Seprio un tratto della riva orientale del Verbano mentre, nel XII
secolo, a seguito del trattato di Reggio del 1185 fra l’Imperatore Federico
I e il Comune di Milano, il Seprio ebbe i suoi confini fissati lungo le rive
del Tresa, le sponde del Verbano e del Ticino e una linea decorrente circa da
Turbigo per Parabiago fino al Seveso e oltre e da qui ad occidente di Como verso
il Ceresio.
A Vico Seprio, dopo un periodo di confusione causato dall’arrivo dei Longobardi,
la situazione si normalizzò. I Longobardi avevano infatti come propria
abitudine quella di non mischiarsi con gli indigeni del luogo, creando propri
insediamenti, propri luoghi di culto e propri cimiteri.
Soltanto se una particolare zona rivestiva un rilevante ruolo strategico se
ne impossessavano.
Comunque, per Vico Seprio, il trovarsi all’interno di un’arimannia,
induce a pensare che la coesistenza fra longobardi e locali divenisse con il
tempo sempre più stretta.
L’arimannia deve essere ritenuta il risultato della territorializzazione
delle vecchie fare avvenuta sotto Autari sul finire del VI secolo.
In cambio di un servizio attivo di guardia e di difesa per dati luoghi o territori,
come poteva essere il castrum di Seprio ed i suoi immediati dintorni, la Corona
Longobarda concesse, all’epoca di Autari, in uso ad ogni fara, un preciso
insieme patrimoniale costituito da campi, pascoli, boschi, corsi d’acqua.
Nel 588 scoppiò la guerra che vide i Longobardi comandati dal re Autari
opposti alla coalizione formata da Bizantini e Franchi. La lotta interessò
i territori longobardi comprendenti gran parte dell’Istria e del Veneto,
della Lombardia occidentale e parte del Piemonte e dell’Emilia odierni
quando questi si ritrovarono stretti ed isolati fra gli Avari e gli Slavi, legati
fra loro, ad oriente, i Bavari che premevano oltre il confine atesino, gli Alamanni
nel tratto Retico delle Alpi ed, infine, i Burgundi nel restante tratto Lepontino-Graio-Pennino-Cozio.
A meridione si trovavano i Bizantini.
Il ruolo avuto dal Seprio nel conflitto fra Longobardi e Franco-Bizantini è
documentato dall’opera di Gregorio Turonense e di Paolo Diacono, che però
ne danno, per alcuni aspetti, descrizioni diverse.
Dopo le prime sconfitte, nel 590, gli avversari di Autari svilupparono un nuovo
piano d’attacco: partendo i Franchi da Coira e i Bizantini da Ravenna,
gli alleati avrebbero puntato su Verona e Ticinum (Pavia).
Le più salde unità arimanniche, così serrate in una gigantesca
morsa, sarebbero state sconfitte.
Ma non fu così: alcuni dei più fidati corpi militari tra cui quello
del Seprio si opposero agli invasori e li costrinsero a desistere dall’intento.
Della situazione nemica approfittò Autari. Chiuso in Ticinum, avviò
trattative con i franchi di Audovaldo.
La sua morte, improvvisa e dovuta forse ad un complotto, rischiò di compromettere
il processo di pace, ma il suo successore Agilulfo, sposato dalla vedova di
Autari, Teodolinda, lo portò a termine stipulando una tregua di dieci
anni.
Voltesi contro l’impero, le forze longobarde fedeli riuscirono ad arrestare
i progressi militari bizantini e, nel 593, puniti i duchi traditori, Agilulfo
passò alla controffensiva: si spinse a sud, ad est, a nord. Riuscì
vincitore. Battuti, i Bizantini abbandonarono qualsiasi velleità di guerra.
Nel 590, stipulata la pace sulla base di un tributo da versare annualmente ai
Franchi, ed orientatasi la monarchia longobarda verso il cattolicesimo prima
tricapitolino poi romano, lo stato arimannico potè godere di un lungo
periodo di tranquillità che durò, quasi senza interruzioni, fino
al 773, anno della definitiva calata Franca in Italia.
Conclusa la guerra
con i Franchi, i Longobardi non si preoccuparono di mantenere funzionali le
postazioni militari del Seprio tra cui quella di Sibrium le cui fortificazioni
tardoromane, gote e bizantine dovevano essere già in cattivo stato a
causa degli smottamenti verificatosi lungo i bordi del pianoro dovuti alla conformazione
geologica del luogo.
Castel Seprio non risentì tuttavia della perduta funzione militare e
guadagnò importanza grazie al ruolo di porta obbligata per i traffici
commerciali.
I Bizantini, stanziati nel distretto del Lario, avevano bloccato per circa vent’anni
l’arteria che, attraverso Chiavenna ed il lago di Como, univa un tempo
le regioni transalpine alla pianura Padana. Questo era andato a favore della
via che correva più ad ovest, passando attraverso il Seprio.
Agli inizi del VII secolo, sia le greggi padane che annualmente salivano all’alpeggio,
sia le popolazioni della Rezia, prive di cereali e foraggi, che scendevano verso
la pianura, passavano per il Seprio.
Sempre agli inizi del VII secolo, gruppi sempre più fitti di inglesi,
da poco convertiti al cattolicesimo, passavano di qui durante i loro pellegrinaggi
verso Roma.
Per tutto ciò, Seprium, divenuto Seprio (versione barbarizzata dell’antico
toponimo), situata proprio all’estremità meridionale di questa
nuova via di traffico, oltre che sede di judiciaria e, quindi, centro di periodico
raduno arimannico, diventò in breve tempo una tappa fondamentale e luogo
di mercato frequentatissimo.
Ogni anno, il 25 marzo, si celebrava, secondo il rito orientale, la festa patronale
di S. Maria e si teneva una grande fiera a cui conveniva una folla numerosissima.
Nel VII secolo, per sopperire ai bisogni immediati di denaro liquido manifestatosi
in tali occasioni, una locale zecca autorizzata incominciò a battere
moneta aurea
recante la dicitura Flavia Seprio.
Nel VII ed VIII secolo, accanto al castrum, strettamente presidiato dagli arimanni,
risorse un abitato civile su ciò che restava delle poche capanne abitate
nel basso impero da civili poi utilizzate come materiale da costruzione dai
Bizantini.
Ai primi anni del secolo VIII è da ricondurre la nascita di un monastero
benedettino femminile, più tardi noto come Santa Maria de Turba, in fondo
al saliente che dal castrum scendeva a valle.
Non più estirpata da anni la vegetazione doveva allora avere invaso del
tutto i declivi del pianoro soprastante, imbrigliandone così il terreno
e riducendone le frane.
E questo, col creare l’illusione di una tornata sicurezza, aveva portato
al sorgere, ancora in piena età longobarda, prima di una chiesetta, con
probabile dedica a San Raffaele, poi sostituita da altra in fondo al saliente,
proprio davanti al torrione; quindi l’installarsi del cenobio in quest’ultimo
e in alcuni ambienti che si erano addossati al vicino tratto di muro.
Sotto Astolfo,
salito al Trono nel 749 ebbe inizio la fine dello Stato Longobardo.
Dopo aver modernizzato e rafforzato l’exercitus del Regno con il concedere
l’entrata anche dei liberi non longobardi, questo Re si era lanciato in
una politica espansionista ed autoritaria conquistando Ravenna, l’Esarcato
e la Pentapoli bizantina, incorporando il Ducato indipendente di Spoleto, prendendo
gli ultimi possessi di Bisanzio in centro Italia e revocando le donazioni fatte
dai suoi predecessori ai Papi, giungendo fino a minacciare il Ducato stesso
di Roma, nominalmente ancora dell’Impero d’Oriente ma in pratica
tenuto dal Pontefice, il quale, nella persona di Stefano II, chiese infine aiuto
ai Franchi retti da Pipino il Breve.
E fu la guerra.
Astolfo venne sconfitto e morì nel 756; Desiderio, il suo successore,
riequilibrò la situazione politica generale ma non potè evitare
un nuovo dissidio col Papa Adriano I, tanto che questi richiamò in Italia
i Franchi di Carlo, il futuro Carlo Magno.
Nel 774 Desiderio fu costretto alla resa in Pavia e Carlo divenne anche Re dei
Longobardi, rispettandone apertamente strutture ed ordinamenti ma infiltrando
in realtà fra loro, come funzionari o privati possessori di beni immobili,
elementi a lui fedeli, destinati a prendere il sopravvento sui vinti.
Nel 781 il Regno dei Longobardi cessò di esistere ufficialmente.
Al suo posto venne creato da Carlo un Regno d’Italia affidato a suo figlio
Pipino.